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Il vero Risorgimento è il nostro

ITA e tutte le sue menzogne

di Paolo L. Bernardini

Mi sono ritrovato recentemente in una trasmissione televisiva, diretta dall’eccellente Maria Luisa Vincenzoni, presso Triveneta – spero vada in onda presto – a parlare di “Veneto e unità di ITA”. Ero circondato da persone anziane, cui va tutto il mio rispetto naturalmente, tutte prese dalla loro funzioni di vestali della Vergine dal Candido Manto ITA – quella che in Riva degli Schiavoni schiaccia ancora la testa al leone in quell’infame monumento, che fonderemo per farci un motore a scoppio – con due significative eccezioni, Ivone Cacciavillani, venetissimo uomo d’alta cultura, eccellente giurista, giornalista e storico di vaglia, ed Ermanno Chasen, presidente della suddetta televisione, uomo di cultura non meno vasta ed aperto (con tutte le cautele) al nuovo e alla visione critica della storia. Ma è incredibile come la favola bella di Napoleone liberatore e Cavour unificatore, sotto l’ombra bonaria dei Savoia — dimenticando tra l’altro che ai Savoia Napoleone fece guerra e per primi, ne invase i territori, e lì mandò anche in esilio a Cagliari – e con il consenso di “tutti gli italiani”, sia diventata parte del DNA di questi professori, direttori di istituti mazziniani, delegati alle celebrazioni garibaldine, etc. etc. Insomma, mi sono trovato davanti, ad esempio, un professor Lenci, medico e partigiano, di anni 90, che difendeva con vigore il Napoleone “liberatore degli ebrei in ghetto”, “foriero di libertà uguaglianza e fraternità”, e così, fuor di trasmissione, gli ho chiesto: “Ma professore, lei che ha messo a rischio la propria vita come partigiano, a cui noi tutti dobbiamo molto (forse senza di lei io di famiglia parzialmente ebrea neanche sarei nato) e innanzi tutto rispetto, perché non capisce i veneti che insorsero contro Napoleone, così come lei, ventenne, mise a repentaglio la propria vita contro i tedeschi e i repubblichini? Non erano Napoleone e Hitler, entrambi, invasori stranieri?”. Nessuna risposta, ma nel suo cuore di uomo coraggioso e fiero una risposta l’avrà pur data, senza dirla. Non spetta a me, ma alla verità che si esprime sempre allo stesso modo in tante voci, portare gli uomini davanti alle loro contraddizioni. E poi la storia, la parola degli storici: ed in questo con moderazione l’avvocato Cacciavillani, ed io con enfasi – ma sono i peccati miei di gioventù, della poco che mi resta – abbiamo messo in luce il modo ingiusto, arrogante, superficiale, in cui dal 1866 l’ITA ha trattato la Venetia, umiliandola in tutti i modi, facendone una “questione”, la “questione veneta”, un po’ come la “questione ebraica” in Germania, che poi Hitler risolse nei modi a tutti noti.

Così, radicalmente, vorrei dire (come ho detto in televisione) che l’ITA sabauda ancora, e tale fino al 1945, al “Veneto” portò quattro bei regali. Vediamoli uno per uno.

La deportazione, ovvero la migrazione forzata, organizzata da funzionari di stato corrotti in combutta con i dirigenti delle grandi compagnie di navigazione sabaudo-genovesi, di milioni di uomini della Venetia, e non solo di essa. Veri nazisti in pectore, nati solo troppo presto per diventarlo davvero, come Nino Bixio, già viaggiavano negli anni Cinquanta in Australia, per trovare luoghi possibilmente inameni dove deportare gli italiani in “eccesso”. Secondo i loro calcoli malthusiasi, le mal digerite e scarse letture dei campioni dell’Italia “risorta”.

La morte. La morte in massa dei soldati mandati da ITA neonata a creare l’”Impero”, per non essere da meno delle altre grandi potenze colonial- assassine dell’Ottocento, il secolo che veramente ha preparato Auschwitz in tutto e per tutto. A sterminare con il gas intere popolazioni, come ci ha raccontato Angelo del Boca (e ora Aram Mattioli, e numerosi altri storici non venduti né in vendita). La morte, poi, di 600.000 “italiani” nella prima guerra mondiale, tra cui tanti veneti, per “liberarne” 400.000, i quali ultimi poi hanno rimpianto per un secolo l’Austria. La morte di tanti bambini, in fondo, di sedici anni e meno, come raccontano le lapidi sbiadite in tante chiese e monumenti e cimiteri, tenute in abbandono perché non sia mai che quei nomi, se venisse sbiancato il marmo e lucidato il bronzo, ai tenutari di ITA non ricordino d’improvviso tutta l’infamia di cui si fanno difensori.

La miseria. Si prenda una guida Touring dei primi anni Sessanta del Novecento, con tante belle foto in bianco e nero, e qualcuna, costosissima a stamparsi, a colori: il Veneto è ancora un paese agricolo, l’industria non esiste o è limitata (certo i Savoia portarono la Breda, e poi?), si percepisce la miseria, il suo colore perso ed il suo odore triste, di pagina in pagina, quando non affiori il glamour, lontano e straniero, di Cortina, dei Grand Hotel di Venezia, e poco altro. Si sente ancora la ghigliottina della tassa sul macinato. Dunque, 1866-1966, cent’anni di miseria. Poi la parentesi (controversa) del boom, e ora via verso la miseria di nuovo.

L’umiliazione. Ma furono davvero 69 i veneti che nei vergognosi plebisciti del 1866, la “grande truffa” per citare il libro di Ettore Beggiato (certo storico non professionista, ma perché, a parte uno, quali cattedre hanno occupato i miei avversari/interlocutori del programma tv? Da quando in qua per essere storici bisogna insegnare storia?) votarono contro l’annessione? Come avvenne quel plebiscito? Perché il Veneto venne tenuto a bagnomaria costituzionale fino al 1871, senza che vi venisse introdotto lo Statuto albertino, incerti su come trattarlo, su quale “prefetto di ferro” inviarvi per sanare la situazione (fu inviato poi Luigi Torelli da Sondrio, una sorta di “wannabe” Berlusconi dei tempi, almeno pensava ad arricchirsi che non è del tutto un male, in certe circostanze). Quanto pesarono i deputati veneti al parlamento italiano, almeno fino al 1950? Uno, Matteotti, uomo di nobilissimi sentimenti, venne ucciso dai fascisti senza sollevare nessuna protesta adeguata. Quando proposi di intitolare a Matteotti l’Università di Rovigo – attualmente, un solo edificio – nessuno mi prese sul serio e in questa ITA di ignoranti al potere pensarono che avessi in mente chissà quali trame politiche.

Deportazione, morte, miseria, umiliazione. Forse il “Museo del Risorgimento” dovrebbe raccontare questo, anziché inventarsi la storia, che è sempre cosa ignobile: Samuel Butler scrive da qualche parte che gli storici possono alterare il passato, Dio no, e forse Dio li mantiene in vita per questo.

Il vero Risorgimento è quello che sta avvenendo ora in Veneto, grazie al PNV. La rinascita, in altre e modernissime forme, di uno Stato che visse 1100 anni, libero, indipendente, felice, ora ricco ora meno, ma vivo. Il Risorgimento di ITA è uno stupendo esempio di invenzione della tradizione! Cosa risorgeva, nel 1861? Niente. ITA non era mai stata uno stato, e neanche una nazione. La formula ben nota di Metternich, “una espressione geografica” la nobilitava perfino, oltre a corrispondere, parzialmente, al vero. L’Italia non esiste, diceva un aureo libretto di Sergio Salvi, pubblicato da Leo Facco. Il nome di “repubblica italiana”, a parte un minimo esempio medievale, lo aveva dato nel 1802 Napoleone ad uno dei suoi fantocci politici, che durò pochi anni, e che si contrappose politicamente proprio al resto d’Italia (per cui gli “italiani” erano gli altri!).

Ora, per difendere la mia categoria, in chiusura: non è vero che tutti gli storici recitino la bella storiella tanto edificante quanto falsa che mi (ci) hanno raccontato a Triveneta TV. Gli storici o non studiano più l’Ottocento – lo lasciano fare agli inglesi e agli americani, che pubblicano libroni generalmente insipidi, che poi qui si affrettano a tradurre – oppure studiano i risvolti intimistici, letterari, le mentalità “risorgimentali”, e aprono prospettive nuove, e forse non così neutrali politicamente, sul secolo della conquista sabauda dei territori italiani. L’Italia fu l’invenzione del genio (maligno) di Cavour. Ora la signora Cabiati, una donna di classe e fine scrittrice presente anche lei in trasmissione, con il suo editore, sta per pubblicare una biografia intima di Cavour, e sarà senz’altro piacevole lettura. Come è piacevole leggere D’Azeglio, anche se, fatta (male) l’Italia, gli “italiani” per fortuna nessuno è riuscito, né mai riuscirà a farli. Ma si legga invece Martucci, L’invenzione dell’Italia unita (Sansoni 1999). Ci racconta come tra il 1855 e il 1864, in fretta e furia, ITA sia venuta fuori, presto orfana di padre (Cavour), e con… tante madri, diciamo così.

Il vero Risorgimento lo stiamo facendo noi adesso. Lo fa il popolo veneto che vuole tornare ad essere libero, ricco, produttivo, fiero della propria lingua e della propria terra, uno delle più grandi tradizioni del mondo, che non occorre certo inventare, la si scopre e riscopre anche solo passeggiando in una calle minore di Venezia, tra le piane del Polesine, sulle Dolomiti. 1797-2010. Una parentesi di duecento anni tra mille e cento di libertà, e altri mille almeno di libertà ancora maggiore. La stiamo per chiudere e non è cosa da poco.

Paolo L. Bernardini
Presidente emerito
PNV

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