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E bravo Tremonti

di Lodovico Pizzati e Michele Boldrin. Pubblicato su noiseFromAmerika.org

Sorpresi? Stiamo cercando di concentrarci sui lati positivi. Ma non illudetevi: i tagli alla spesa non bastano.

Bene l’aver resistito l’anno scorso alla tentazione degli stimulus plans. Dato l’elevato debito italiano, se avesse risposto alla crisi finanziaria come hanno fatto Francia e Germania, ora qui sarebbe peggio della Grecia.

Bene anche il recente impegno ai tagli alla spesa pubblica. Seguendo l’esempio di Spagna e Portogallo, pare concretizzarsi una manovra di tagli da 26 miliardi (spalmati su due anni: 2011-2012), che potrebbe includere addirittura tagli agli stipendi di politici e managers statali.

Sono mosse chiaramente non scelte ma forzate dalla situazione disperata dei conti pubblici. Vanno comunque incoraggiate perché alternative a manovre suicide come stimulus plans prima, e aumento della pressione fiscale ora. I tagli alla spesa pubblica comunque non bastano e, per quanto sulla buona strada, se la manovra anti-crisi si riducesse solo ai tagli della spesa rischierebbe di non fare un gran bene.

La motivazione dietro questi tagli è la crisi di finanza pubblica che ha investito tutta Europa. Dopo decenni di social-democrazia finanziata dal debito, in Europa è arrivato il conto: i risparmiatori non si fidano più dei governi e non sono più disposti a prestare per timore di non veder mai più tornare indietro i propri risparmi. Lo shock, per le classi politiche che da decenni negavano l’esistenza di un problema, è arrivato improvviso nel 2009 a seguito del crollo di 5 punti percentuali del PIL di svariati paesi europei.

È importante menzionare che questo crollo del PIL non ha incrementato i rapporti Deficit/PIL e Debito/PIL solo perché ne ha ridotto il denominatore. Ha anche portato ad una seria caduta delle entrate fiscali, aumentando i numeratori. Il timore degli investitori (almeno per Italia, Portogallo e Spagna) si deve più alla caduta delle entrate che alla crescita della spesa. Perché? Perché una parte importante di questa caduta del gettito fiscale è permanente.  E perché è permanente? Perché la crescita economica a tassi sostenuti (che genera sia reddito che gettito) non sembra aver alcuna intenzione di tornare. Questo vale doppiamente per l’Italia, la quale era già da un decennio che la crescita sostenuta se la sognava. Rebus sic stantibus, continuerà a sognarsela.

Questo, quindi, il problema della cui esistenza si è finalmente reso conto anche GT: il deficit pubblico pari al 5% del PIL, per quanto sia più piccolo di quello degli altri grandi paesi EU, ha natura quasi interamente permanente. Con un deficit permanente di questa entità, l’Italia rischia di fare la fine della Grecia nello spazio di un anno o due. Con almeno un anno di ritardo, anche GT l’ha capita (o gliel’hanno fatta capire i tedeschi e la BCE, che fa lo stesso). Meglio tardi che mai.

Vediamo ora perché quanto ha proposto di fare è “bene, ma insufficiente”. Partiamo da:

Bilancio Primario = [(Entrate Fiscali) – (Spesa Pubblica)] / PIL

Fino al 2008 l’Italia era un paese virtuoso in bilancio primario, spendendo meno di quanto raccoglieva in tasse (il deficit finale viene dagli interessi sul debito). Se il PIL 2008 era 100, la spesa pubblica (interessi sul debito pubblico esclusi) era 44 e le entrate erano 46. Dunque il bilancio primario per il 2008 era:

Bilancio Primario 2008: 2% = [46- 44]/100

L’Italia nel 2008 aveva un 2% di surplus primario (2.4% ad esser precisini). Nel 2009 il PIL è crollato a 95, la spesa è rimasta più o meno inalterata in valore assoluto mentre le entrate si sono aggiustate in proporzione al PIL.

Bilancio Primario 2009: -0.3% = [(0.46*95) – 44]/95

Sommandosi agli interessi sul debito, questo deficit primario porta al preoccupante -5.3% del PIL. I calcoli sono approssimativi, ma servono a far intendere un meccanismo importante: a legislazione vigente, le entrate fiscali sono una percentuale fissa del PIL mentre la spesa pubblica tende ad essere fissa in valore assoluto. Poiché la spesa pubblica italiana non ha nulla di ciclico, ci sono solo due modi per evitare che il deficit permanga nel tempo, destabilizzando il rapporto Debito/PIL: far ritornare rapidamente il PIL ai valori del 2008 (o superiori) oppure tagliare la spesa, o una combinazione delle due cose. Per evitare di fare la fine della Grecia, anche il governo italiano s’è svegliato, ed ha annunciato qualche taglio. Bene.

Tredici miliardi di tagli (26 in due anni) sono pari ad un 1% scarso del PIL, portando la spesa da 44 a 43. Assumiamo anche che il PIL cresca dell’1% arrivando a 96:

Bilancio Primario 2011: 1.2% = [0.46*96) – 43]/96

Togliendoci poi gli interessi sul debito, questo porterebbe il deficit sul -4%. Benissimo. Cioè, sarebbe sempre un numero preoccupante, ma perlomeno darebbe un segnale di miglioramento. Purtroppo il problema con questo calcolo è che è incompleto: tagliare la spesa ha conseguenze immediate anche sul PIL.

Questa spesa pubblica (inefficente o meno che essa sia) va comunque a finire nella domanda aggregata. Se riduciamo G (la spesa pubblica) di un punto percentuale e non facciamo niente altro la domanda aggregata dovrebbe calare di un 1%. Non sarà proprio un 1% perchè potrebbe esserci una crescita della domanda estera e un miglioramento delle aspettative dei consumatori (che discuteremo dopo). Però, in prima approssimazione, l’impatto sarà di far rimanere il PIL a 95 o giù di lì. Quindi, se l’unica azione di politica economica consiste nel ridurre la spesa dell’1% del PIL, avremo:

Bilancio Primario 2011: 0.7% = [(0.46*95)- 43]/95

Per i pignoli, ripetiamo che l’impatto di una riduzione della spesa pubblica non sarà di 1 a 1 sul PIL: potrebbe essere maggiore o minore. Ma non è questo il punto: il punto è che non si esce da una crisi strutturale dei conti pubblici solo tagliando la spesa. Si viene fuori dalla crisi soltanto stimolando la crescita economica, portando il PIL da quel 95 a 100 il più presto possibile e garantendo poi un tasso di crescita sostenuto che riduca il rapporto Debito/PIL per inerzia. Per applaudire non basta una mano, ce ne vogliono due, e la seconda mano consiste nella riduzione della pressione fiscale e nell’attivazione di meccanismi di crescita.

Perchè serve accompagnare la riduzione in spesa pubblica con almeno una riduzione delle tasse? Vediamolo in due passi. Prima consideriamo semplicemente l’impatto sulla domanda aggregata. La riduzione della spesa pubblica di 13 miliardi, che porta G da 44 a 43, serve per finanziare una riduzione della pressione fiscale (poi parliamo dove farla) da 46% a 45%:

Bilancio Primario 2011: 0.2% = [(0.45*96) – 43]/96

I dati sono approsimativi con delle inesattezze di secondo ordine, ma paragoniamo il risultato con i precedenti. Il bilancio primario non è uno 0.7% come prima, ma solo un 0.2%, per due ragioni. La prima ragione è perchè non abbiamo utilizzato la riduzione della spesa pubblica per ridurre il deficit, ma l’abbiamo invece utilizzata per ridurre le tasse: questo peggiora il bilancio primario. Secondo, non abbiamo perso un punto percentuale del PIL (abbiamo mantenuto la crescita a 96), quindi il denominatore è maggiore. Quest’ultimo fatto segue dall’ipotesi che una riduzione della pressione fiscale dell’1% finanziata da riduzione della spesa genera, in Italia, una crescita della domanda privata del medesimo ammontare.

Il punto macroeconomico è che, considerando solo la domanda aggregata, una riduzione di spesa pubblica accompagnata da un’equivalente riduzione in pressione fiscale dà un risultato (quasi) neutrale. Allora perché riteniamo ci debba essere anche la riduzione delle imposte? Perché, a nostro avviso, in Italia una riduzione delle tasse avrà un effetto sulla crescita. È come sacrificare un pò di pesci oggi (minor miglioramento nel bilancio primario) per imparare a pescare (più crescita oggi, domani e dopodomani).

Non dimentichiamoci che il reddito nazionale, il PIL dell’ISTAT, è funzione di fattori che vengono compressi dalla pressione fiscale. La pressione fiscale, specialmente quando supera certe soglie “critiche”, influisce negativamente sulla crescita e, non a caso, l’Italia ha una delle pressioni fiscali più alte d’Europa ed il più basso tasso di crescita europeo degli ultimi dieci anni. Continuando con la serie di calcoli illustrativi e includere l’effetto crescita, facciamo l’ipotesi non del tutto peregrina che una diminuzione dell’1% della pressione fiscale, se fatta bene, possa regalarci una mezzo percento di crescita in più. Allora:

Bilancio Primario 2011: 0.4% = [(0.45*96.5) – 43]/96.5

Dove applicare una riduzione fiscale di 13 miliardi di euro? Senzaltro in una riduzione del cuneo fiscale che impedisce al nostro sistema produttivo di essere competitivo nel mercato globale. 13 miliardi di meno tasse sono pochini, e le possibilità di riduzioni fiscali abbondano. Non bisogna però perseverare nel ragionamento erroneo che siccome sarebbe una riduzione talmente marginale, tanto vale non farla. È una strada lunga e fatta di piccoli passetti, ma è l’unica via di uscita dalla fossa del debito pubblico causato da decenni di socialismo.

Ovviamente, siccome il problema è la crescita, non bastano i piccoli tagli della spesa accompagnati da altrettanto minuscole riduzioni fiscali. Non solo ne servono di ben maggiori ma, soprattutto, occorre evitare di far gran danni altrove mentre si fa qualcosina di buonino da un lato. Ecco, allora, che la Banca del Mezzogiorno o il Finto Federalismo Fiscale (FFF) andrebbero evitati come la peste. Come andrebbe evitata l’idea di rimandare la riforma del sistema fiscale alla fine della legislatura: va fatto ora! Questo tanto per menzionare le prime tre cose importanti che ci vengono in mente.

Allora, per il momento bravino Tremonti, ma tagliare la spesa non basta, anzi, non basta nemmemo tagliarla di solo 13 miliardi, se è per quello. È fondamentale accompagnare i tagli nella spesa pubblica con altrettanta riduzione nella (op)pressione fiscale ed evitare di fare guai collaterali nel tentativo di “compensare” immediatamente i costi elettorali che questi tagli potrebbero generare, perché poi è tutta lì la questione e tu, Giulio, lo sai. Cerca di farglielo capire anche al signor BS.

P.S.

Siccome siamo economisti, abbiamo considerato anche la versione complicata del problema. Eh sì, perché quella di prima era la versione facile. La mettiamo qui, in appendice, perché per una volta non sembra fare grande differenza. Facciamo, di nuovo, l’ipotesi che si taglino solo le spese e non le tasse. Allora, in soldoni, cala (forse) il PIL e (quasi certamente) si riduce il deficit pubblico. Questo implica che si riduce, rispetto all’alternativa, l’emissione di debito pubblico. Qui entra in scena l’arnamentario pesante dell’economista: crowding out (ossia, Martin Feldstein, MF) o equivalenza ricardiana (ossia, Robert Barro, RB, l’allievo discolo del precedente)? È un casino, anche perché l’alternativa non è così netta. Comunque, in soldoni, funziona così. Se ha ragione MF la minor emissione di debito pubblico lascia spazio al debito privato, che potrebbe far crescere gli investimenti i quali, a loro volta, tendono a far crescere il PIL. Insomma, far meno debito pubblico fa crescere il PIL da solo, anche senza tagliar tasse. Se ha ragione RB … il risultato è lo stesso: siccome meno spesa oggi vuol dire, anche a tasse invariate oggi, meno tasse domani, le famiglie si sentono meno povere e spendono di più. Insomma la domanda riappare da quel lato. Complicato, per cui proviamo a darci un’occhiata più attenta.

Il ragionamento “ricardiano” dice che non importa quando tagli le tasse: se tagli la spesa il settore privato sa che, nel lungo periodo, deve pagare meno tasse quindi si sente più ricco e quindi compensa con domanda privata alla caduta di domanda pubblica. Il ragionamento “keynesiano” dice che la minor emissione di debito pubblico lascerà parte del risparmio privato “libero” per fluire verso investimenti privati, i quali saranno quindi agevolati. A noi, in realtà, nessuno dei due ragionamenti convince: il risparmio italiano già va dove lo porta il cuore (ossia, i tassi di rendimento nel mercato globale) ed il debito pubblico viene acquistato da investitori sia italiani che globali. Una variazione nell’emissione di debito pubblico italiano non avrebbe probabilmente alcun effetto sui tassi d’interesse che le imprese italiane devono pagare per prendere a prestito. Il ragionamento ricardiano è inficiato, in Italia, dal fatto che almeno il 50% più povero non gode quasi di alcun accesso al credito per il consumo: una riduzione fiscale anche piccola, ora, sarà per queste famiglie molto meglio che una riduzione fiscale magari maggiore ma “futura”.

Morale: anche la versione sofisticata suggerisce di non tagliare solo la spesa. Occorre tagliare subito anche le imposte sul reddito da lavoro.

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