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Ombre cinesi

Se nel precedente articolo (qui) ho parlato di operatori cinesi contro cui la parola “concorrenza sleale” è tutta da verificare, in quest’altro articolo do un colpo al cerchio, per esporre una questione che forse molti hanno posto, ma che di fatto non ha ancora trovato risposte. Nel precedente articolo mi ero concentrato più che altro sul problema del libero mercato, prendendo di mira le tabelle dei prezzi degli artigiani; peraltro oggi mi è stato fatto notare che tali tabelle sono utili perché tanti artigiani non hanno né il tempo né le capacità di calcolare i prezzi di vendita e queste sarebbero più una guida, dato che non vi è alcun obbligo di seguirle. Si…

In questo articolo invece mi concentro su un aspetto singolare delle imprese cinesi che sorgono come funghi nel nostro territorio. Si tratta di una prima considerazione, che meriterebbe maggiore approfondimento, ma che per ragioni di tempo e carenza di personale volontario, non è stato possibile sviscerare meglio.

Molti di voi avranno notato che i bar si stanno cinesizzando, ma questa volta fuori nessuna lanternina rossa. Sembrano le nostre tradizionali caffetterie, ma poi vai dentro e trovi il personale cinese. Non è personale assunto dal vecchio titolare, no, si tratta di persone che gestiscono in proprio il bar. Ma sarà davvero “in proprio”?

Il giornale “La provincia di Varese” il 30 Luglio 2009 pubblicava un articolo su una nuova gestione, ecco un estratto dell’intervista al “proprietario”:

Lo storico proprietario del locale di via Sacco, di fronte al comune di Varese («L’angolo di cielo»), da un paio di mesi ha venduto il suo bar alla famiglia Chen. Il bar è una delle tante attività commerciali che sono state rilevate dai cinesi nella nostra città, come il bazar di via Bagaini o i parrucchieri che “svendono” taglio e piega a 10 euro. «In effetti sono davvero numerosi i miei connazionali che si dedicano al commercio» spiega Wei Wei, il nuovo proprietario del locale. «Il motivo esatto non lo saprei spiegare. Certo è che i ristoranti cinesi qui non “tirano” ed è inutile aprirli. Fossimo a Milano sarebbe diverso. Che dire, ci dedichiamo ai bar o anche ai negozi».

La famiglia Chen, è un po’ come dire la famiglia Rossi in Italia. Dalle voci raccolte in giro pare che i bar siano acquistati a suon di contanti per cifre importanti che nessun Veneto si sente di offrire. Si parla di bar ceduti per 200-250 mila euro, pagati in contanti sull’unghia. Il personale lascia perplessi. Le bariste (sono quasi sempre donne) arrivano da città lontane, restano alcuni mesi, e poi si spostano in un’altro bar, in un’altra città lontana. I titolari quindi non sono quelli che vedi al banco. Lo stesso pare accada nei ristoranti. Anche alcuni noti ristoranti “giapponesi” in realtà pare siano di proprietà cinese. In uno di questi bar una volta vediamo arrivare dei tipi loschi, cinesi, che chiedevano di vedere i conti. Ogni tanto si fanno vedere, commentava confidenzialmente con noi un avventore abituale.

Ci sono altri punti oscuri della vicenda. Per esempio i passaggi di proprietà. Se per caso acquisti un immobile, la finanza viene a spulciare i tuoi conti e ti fa la radiografia, lo faranno anche con questi acquirenti cinesi? Alcuni speculano sulle fonti di tanto danaro contante, però occorre ricordare che in Cina ci sono dei veri ricchi, con i soldi veri, in contanti e non quelle ridicole carte di plastica che danno l’illusione ai possessori di avere i soldi.

Questi ricconi per esempio hanno organizzato shopping tour in California e in Florida per acquistare le ville e le case di lusso in svendita dopo il crac immobiliare in USA.  Con pullman andavano per le strade a cercare dove investire i loro dollari opportunamente convertiti da una valuta forzatamente allineata. Uno di loro commentava: “ecco, vedi, quella casa …bella casa” -indica una villa con grande giardino dotato di tre vialetti- “quella casa ora compro per solo 150 mila dollari, ci sono case anche per 50mila, ma meglio comprare in grande.” Quanto sei disposto a spendere? “Io, fino a 500 mila dollari, spero di trovare due o tre case.”

Non stupiamoci troppo quindi del danaro contante cinese, potrebbe avere quelle fonti. Poi come “quelle” fonti siano state prodotte, meglio non chiedere…

Non arrivo a nessuna conclusione, ovviamente, perché per formulare precise accuse occorrono prove. D’altra parte diverse sono le singolarità che accompagnano questi immigrati taciturni e riservati che si stanno comprando un po’ alla volta diverse attività commerciali. Loro non sembrano spaventati dalla oppressione fiscale e dalla asfissia burocratica italiana, né delle iperregolamentazioni dei tecnocrati di Brussel. Non sembrano affetti da problemi di crisi, e non sembrano soffrire se i clienti sono scarsi se non in alcuni casi inesistenti. In più sembra si impegnino accuratamente ad evitarci e a non integrarsi. Mentre i pan-arabi non sono interessati ad integrarsi per convinzione religiosa e semmai addirittura vorrebbero che fossimo noi ad integrarci nella loro cultura imponendola per forza, per i cinesi la questione è molto più semplice: si considerano alieni, e ci considerano alieni.

Alcuni elementi di confronto con altri immigrati che hanno scelto l’avventura commerciale sono utili come metro di paragone. Anche gli indiani si sono cimentati in ristorazione, negozi di prodotti tipici (abbigliamento, oggettistica, alimentari). Non vediamo operazioni magnifiche, con appropriazioni a suon di danaro contante, ma modeste attività che pagando l’affitto si ritagliano la loro fettina di mercato. Anche per i pan-arabi, con i Kebap shop (in realtà lanciati dalla catena turco-tedesca Döner) in fondo vediamo modeste attività, barachini, lanciati dal logo e con il supporto di una catena ben rodata da decenni di esercizio in Germania, un po’ come i chioschi Inbiss di tipica impronta tedesca.

Insomma, c’è effettivamente qualche cosa di strano. Chi indagherà?

Claudio G.

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