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meglio un default che l’austerità estrema

di Lodovico Pizzati

Diversamente dalla crisi finanziaria 2008-2009, la crisi dei conti pubblici italiana è stata ampiamente prevista, ma è mancata la politica economica adatta per cambiare rotta con convinzione. Ora che ci si avvicina all’inevitabile arrivano affannate le proposte estreme che, come già visto altrove, rischiano di fare peggio.

La crisi finanziaria 2008-2009 ha lasciato due cose: una riduzione del 6.5% del Pil italiano (-1.3% nel 2008 e -5.2% nel 2009), e un aumento sostanziale dell’indebitamento globale (i vari stimulus plans ciclopici per salvare il sistema bancario internazionale). Come per ogni epidemia i più deboli sono i primi a rischiare, anche se non sono i primi a starnutire. Nel caso della Grecia prima, e dello stato italiano adesso, il crollo del reddito nazionale comporta per le casse dello stato un tracollo delle entrate fiscali (meno reddito, meno tasse), che lentamente rende la solvenza dell’enorme debito pubblico sempre più insostenibile. Questo pericolo per la sostenibilità fiscale è stato largamente anticipato più di due anni fa, ancora nella primavera del 2009, quando tutta l’attenzione politica discuteva se gli stimulus plans erano larghi abbastanza per salvare ad ogni costo il sistema bancario. Insomma, l’analisi economica per allertarci del pericolo c’era, ed era anche scontata e mai messa in discussione.

Non è stato solo possibile accorgersi del trend insostenibile del debito italiano con almeno tre anni di anticipo, ma non c’è neanche mai stato dibattito su cosa fosse l’ingrediente mancante: la crescita. Lo stato italiano non ha la crescita economica necessaria per garantire le entrate fiscali adeguate per sostenere l’indebitamento pubblico. L’Italia è il paese con il più basso tasso di crescita al mondo (dopo Haiti, dati Fondo Monetario Internazionale), e non a caso è lo stato con la più alta pressione fiscale al mondo (tenendo conto del sommerso, secondo l’istituto di ricerca dei commercialisti italiani). Ne consegue che per poter competere nel mercato globale e per così produrre la linfa fiscale necessaria per sfamare l’indebitamento pubblico, le imprese non possono essere soffocate di tasse. Per crescere e di conseguenza per risolvere la crisi dei conti pubblici ci vogliono semplicemente meno tasse. Questo passaggio, sebbene sia stato esposto e spiegato in dettaglio, è poco intuitivo perché viene spontaneo pensare che per ridurre il deficit ci vogliono più tasse, e  non meno. E invece è vero il contrario, perché a forza di spremerla, l’attività economica viene soffocata.

La finanza pubblica italiana è oggi in crisi non solo per colpa di un indebitamento irresponsabile avvenuto negli anni ’70 e ’80, e non solo perché negli ultimi 20 anni la politica italiana non ha saputo riformare lo stato italiano per così garantire una decente crescita economica al passo col resto d’Europa. Le casse dello stato sono sotto rischio default anche perché nei tre anni dalla crisi finanziaria l’attuale governo non ha saputo attuare una graduale politica di riduzione della pressione fiscale finanziandola con una parallela riduzione della spesa pubblica. C’è stata una politica fatta a metà, limitata a ridurre la spesa pubblica, ma come ha ripetutamente sostenuto il ministro del Tesoro non c’era alcuna intenzione di diminuire la pressione fiscale perché ritenuto irresponsabile dato il livello del deficit corrente. È doveroso sottolineare che questo è stato un errore cruciale che ha smorzato il potenziale della ripresa. Una moderata riduzione della pressione fiscale non solo era, ed è tuttora possibile, ma avrebbe anche lanciato un forte segnale di aspettative di crescita, che rimane l’essenziale ingrediente mancante.

Come se non bastasse la politica economica di questo governo non solo ha escluso categoricamente una riduzione delle tasse, ma ultimamente ha fatto addirittura l’opposto aumentando per esempio ticket sanitari e accise sulla benzina. Tale politica macroeconomica è paragonabile alla medicina medievale del salasso, quando i medici prelevavano quel liquido caldo dal paziente nella speranza di ridurne la febbre. La peggior mossa di tutte è stata quella di aumentare il bollo proprio sulle obbligazioni di stato, tassando ulteriormente quei risparmiatori che coraggiosamente detenevano il debito pubblico. Anche per principio diversi risparmiatori hanno risposto disinvestendo su titoli di stato, e non a caso quest’ultimo tassello combacia con l’impennata dello spread degli interessi sulle obbligazioni decennali italiane rispetto a quelle tedesche.  È stato come accendere una sigaretta dentro una polveriera, e va sottolineata l’irresponsabilità e l’incompetenza di tale manovra.

Ora che il debito pubblico italiano è sotto il mirino dei mercati internazionali, arrivano proposte drastiche per riportare stabilità al bilancio statale e per trasmettere fiducia nella finanza pubblica italiana. Si parla di manovre coraggiose per portare al più presto al pareggio il bilancio pubblico, le quali inevitabilmente prevedono enormi riduzioni della spesa pubblica se non addirittura accompagnate da un ulteriore aumento della pressione fiscale. Queste manovre e questa politica macroeconomica commettono lo stesso errore commesso negli ultimi tre anni: si da priorità al bilancio fiscale al di sopra del problema di fondo che rimane sempre la mancanza di crescita. La riduzione della spesa pubblica va fatta in maniera graduale e solo per finanziare una diminuzione delle tasse, perché è questo che stimola la crescita economica che indirettamente migliora i problemi di bilancio. Voler tagliare drasticamente la spesa pubblica con l’affanno di rassicurare i mercati internazionali non farà altro che introdurre uno shock negativo alla domanda aggregata, la classica politica recessiva che peggiorerà le aspettative sulla sostenibilità fiscale.

L’errore di fondo è quello di voler evitare un default ad ogni costo. Un default se possibile va sicuramente evitato perché riduce la credibilità di uno stato e comporta un aumento dei tassi d’interesse per un periodo prolungato, ma non ad ogni costo. Ripagare le banche francesi e tedesche, o gli stessi risparmiatori italiani che hanno investito su titoli di stato va fatto ma senza compromettere eccessivamente le prospettive economiche della popolazione. L’Europa ha già visto nell’ultimo anno due casi estremi. Da un lato l’Islanda che ha preferito fare default e non ripagare i propri creditori esteri. Dal lato opposto la Grecia che ha attuato misure di austerità estreme per soddisfare le condizioni legate ai prestiti del Fondo Monetario. Prestiti e misure di austerità che non sono bastate per placare le aspettative dei mercati internazionali, ma che hanno lasciato il loro segno sull’economia greca. La politica economica da intrapprendere oggi, come tre anni fa è quella che garantisce il più elevato tasso di crescita sostenuta (graduale riduzione di spesa e tasse), preoccupandosi secondariamente del potenziale default. Se il default accade, è giusto che chi investe si assuma i propri rischi perché i titoli di stato non sono dei fondi d’investimento assicurati sulle spalle della popolazione.

 

 

 

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