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Disinformazione

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Il giornalismo del “così è (se vi pare)”. Stringiamo ora il campo d’osservazione attorno ai giornali italiani, per capire se abbiano ancora la qualità come stella polare. Il giorno è sabato 12 maggio 2007, va in scena il “Family Day. C’è curiosità per vedere come titoleranno i giornali della domenica. Il Corriere della Sera: “La piazza del Family day: «Più di un milione»”. In quella cifra messa tra virgolette, il più autorevole quotidiano italiano declina la propria responsabilità sulla stima dei partecipanti, scaricandola sulle spalle degli organizzatori. La Repubblica evita la cifra nel titolo vero e proprio che suona così: “Il popolo del Family Day”, e la relega nel sommario sottostante, dove è scritto, tra virgolette e ovviamente in corpo più ridotto, “Siamo più di un milione”. La domanda è: il lettore avrebbe diritto di sapere dal suo giornale quanti erano i partecipanti alla manifestazione?

Calcolare la capienza di una piazza con buona approssimazione è piuttosto agevole. È sufficiente conoscerne la superficie e adottare un indice di affollamento medio. Questi episodi sono la spia rivelatrice di un virus profondo del nostro giornalismo: le agenzie di stampa, che hanno oggi un potere quasi sconfinato, e gli uffici stampa dei potenti. Come saranno andate le cose, quel sabato pomeriggio nelle redazioni? Non ci vuole la palla di vetro per ricostruire le mosse di tutti i giornalisti impegnati nella copertura di quella vicenda. I cronisti della manifestazione sanno che il dato è in qualche modo politico, e non saranno certo loro a determinarlo. Ciò vale anche per i telegiornali e gli approfondimenti televisivi.

Intervistopoli. Sono le interviste il vero tratto distintivo dei quotidiani italiani. Nella stragrande maggioranza degli altri paesi, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Germania alla stessa Francia, non è comune che un’intervista appaia su un giornale. Questa è piuttosto un genere giornalistico proprio della televisione e della radio, o al massimo dei periodici. Cos’è l’epidemia di interviste se non uno spazio offerto in appalto all’esterno, sottratto all’elaborazione autonoma dei giornali? I direttori sembrano fare la claque al teatrino della politica, gli arbitri di un incontro di boxe un po’ truccato, in cui mai nessuno cade veramente al tappeto. Le interviste sono sempre di più la rappresentazione pratica della pigrizia. I giornalisti stanno perdendo l’abitudine di leggere ricerche economiche, rapporti sociali, saggi, libri. L’intervista è un genere che dovrebbe piacere molto agli editori: bastano pochi giornalisti, infatti, certamente di buona qualità e provata duttilità, per riempire in tempi brevi intere pagine di giornale.