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Nel cuore dell’inferno

Un mexe fa s-ciopava la guera in Caucaxo. In chei giorni un nostro caro amigo, un patriota veneto che ama viagiar el so catava proprio là. Ve riportemo la cronaca dei chei dì, finalmente visti coi oci de un veneto, Simone Chieregato, che solo un ano fa el portava el gonfalon sule trace de Gengis Khan al Festival de Nadaam in Mongolia

Sapevamo già prima di entrare in Georgia che la situazione non era tranquilla, anche se in maniera blanda ma qualche media ne parlava. Entrando al confine di Sarpi, sul Mar Nero, tra Turchia e Georgia, quando a chi ce lo chiedeva rispondevamo che eravamo diretti a Tbilisi, alcuni ci rispondevano: Georgia BUM BUM! Tenendo le mani a mo’ di pistola e puntandocele contro. I soliti scherzi idioti per intimorire i viaggiatori, non è la prima volta che mi capita. Anche se non avessi saputo niente però mi sarei reso conto subito che la situazione era strana; lungo la strada, in ogni ponte che fosse su di un fiume, cavalcavia o ferrovia, erano a sorveglianza due soldati. La prima cosa che fa una nazione minacciata di aggressione è quella di sorvegliare i ponti, sarebbero i primi ad essere fatti saltare al fine di isolare il paese. Deduco in oltre che lo spiegamento di forze deve essere massiccio, i militari sono al posto di guardia con le autovetture personali, probabilmente il povero esercito georgiano non ha mezzi a sufficienza da equipaggiare tutti i propri soldati.
Passiamo Batumi e Poti, lungo le strade la vita scorre tranquilla e le spiagge del Mar Nero sono affollate dai bagnanti locali, proseguiamo per le strade invase dai pessimi automobilisti georgiani.
Le abbondanti piogge di quest’anno hanno reso il paese più verde e rigoglioso del solito, campi di aureo grano si alternano a prati di verde intenso, il paesaggio è a dir poco bucolico. Arrivati Senaki decidiamo di concederci una piccola sosta, ma, mentre divoriamo con gusto un cocomero appena acquistato lungo la strada qualcosa capta la nostra attenzione; sui binari poco lontani, lentamente, un treno militare muove verso Ovest. Sopra ad ogni vagone un carro armato, sopra ogni carro armato tre militari in assetto di guerra. La bandiera stampigliata sui fianchi dei carri è quella georgiana e di vagoni ne contiamo una trentina. Chiediamo spiegazione di tutto ciò alla folla di curiosi che nel frattempo si era radunata attorno alle moto, niente di preoccupante rispondono loro, è solo una precauzione che il governo sta prendendo nei confronti dell’Ossezia del Sud (regione filorussa a nord del paese) che da tempo protesta sempre più con voce forte al fine di ottenere l’indipendenza dalla madrepatria Georgia. Rimaniamo un po’ perplessi ma il sole sta per calare, ci dirigiamo a Kutaisi e li, durante la cena, faremo il punto della situazione. A Kutaisi quello che doveva essere un hotel è invece una guesthouse, poco male. Ad accoglierci c’è il padrone di casa che ci rassicura subito con buone notizie: situazione sotto controllo in Georgia, “solo” tre morti, domani la questione sarà completamente chiusa e quasi dimenticata. Bene! Peter però, un tedesco dell’est che è ospite della stessa nostra guesthouse, la pensa diversamente. Sono arrivato due giorni fa, ci racconta, ma ora voglio andarmene, ho chiamato l’ambasciata tedesca e mi ha detto che la situazione è preoccupante, di andarmene finché sono in tempo ma si è raccomandata di non passare da Gori, li potrebbe succedere di tutto. Gori rimane sulla strada che dovremmo fare noi domani..! Siamo tutti concordi che Peter esagera, addirittura sembra sotto l’effetto dell’alcool, decidiamo di passare la moneta per quello che vale e non diamo peso a quel che dice. Scoprirò a notte fonda che Peter aveva bevuto, e beveva, in quanto era terrorizzato dall’idea di rimanere intrappolato in un paese dove poteva scoppiare una guerra da un momento all’altro. Durante la cena, un pò per incoscienza un pò per sdrammatizzare, si ride e si scherza sulla guerra; Manuela dice che se all’indomani ci saranno problemi lei si arrenderà ai Russi, Ralitza dice di preferire, anche se di poco, i georgiani. Con sul tavolo la cartina del Caucaso si brinda al nostro viaggio, i miei compagni non sembrano essersi fatti prendere dal panico (per fortuna), alzando il bicchiere e guardandoci negli occhi prendiamo (ed io acconsento) la decisione più stolta (ma rivelatasi poi la più azzeccata) della mia vita: domani si prosegue per Tbilisi passando da Gori. Quando appoggiamo i bicchieri sul tavolo Peter è ormai ubriaco fradicio e praticamente esausto di ripeterci –non passate da Gori, la c’è la guerra!- Sembra tutto deciso quando sul mio cellulare arriva un messaggio: 150 tank russi entrati in Ossezia del sud, sono sull’orlo di una vera guerra, guarda il sito di Al-Jazeera se non mi credi. Andatevene subito!! E’ Nicoletta che mi mette all’erta, una cara amica che sa dove mi trovo e che cerca di farmi avere notizie. Ci precipitiamo al pc e, collegati ad internet, ci immergiamo in una valanga di notizie contrastanti: i morti salgono a 10, poi si parla di centinaia, un sito dichiara più di 1000 vittime e 5 aerei russi abbattuti dall’aviazione georgiana.. sembra un’apocalisse! Quello che è assurdo è che in linea d’aria siamo a 100 km dalla zona del conflitto e sembriamo i soli a preoccuparsene, fuori una serenata illumina la panoramica del Luna Park che gira senza curarsi di niente. I miei compagni vanno a riposare rimanendo fermi sulle loro decisioni, io fumo l’ultima sigaretta al chiarore della luna ma un pensiero mi tormenta; sono il capogruppo e guida della spedizione, a guardare bene dovrei tornare indietro mandando all’aria il viaggio, l’incolumità dei partecipanti deve essere una priorità, ma i miei compagni sono fiduciosi e non sembrano preoccuparsene.. che fare?!? Me ne vado a letto promettendomi che all’alba consulteremo ancora il web dopodiché sarò io a dire l’ultima parola, è l’una e mezza di notte.
Non passa neanche un’ora che sento bussare con vigore alla porta della camera, è Peter che mi urla qualcosa e se ne va. Mi sveglio di soprassalto e scendo in mutande, fuori la notte è buia, trovo Peter seduto ad un tavolo sul terrazzo, è completamente fatto dall’alcool. -Amico mio te lo dico per l’ultima volta, tornate indietro! Le ultime notizie dicono che il presidente Saakashvili ha mobilitato alla guerra tutta la popolazione in età idonea, Tskhinvali (la capitale dell’Ossezia) è stata rasa al suolo dai bombardamenti, i morti si contano a migliaia, ormai è guerra aperta tra georgiani e russi arrivati a dare man forte agli osseti!- Mentre lo guardo barcollare penso a quanto devo dare retta a quelle parole pronunciate da un ubriaco. Poco dopo lui mi saluta, un taxi lo è venuto a prendere, per evitare di passare da Gori andrà in macchina fino a Batumi e da li prenderà un volo fino a Tbilisi dove ne prenderà un altro che lo porterà a Berlino via Istanbul. Peter non tornerà mai in Germania, nel frattempo l’aeroporto di Tbilisi era stato chiuso per ragioni di sicurezza e noi, nel caso l’indomani avessimo deciso di tornare indietro non ce l’avremmo mai fatta, la strada che portava a Batumi era stata fatta saltare quella notte. Noi sapremmo tutto questo solo due giorni dopo. Fumo una sigaretta ancora prima di coricarmi, mentre volute di fumo azzurro salgono al cielo mi domando se le persone che ho con me e sto accompagnando, siano così serene in virtù della troppa fiducia che inconsapevolmente ho infuso loro. Poggio la testa sul cuscino con 4 vite sulla coscienza. E’ l’alba, mentre si fa colazione Ermanno consulta ancora internet e si iscrive al sito della Farnesina “Italiani nel Mondo” lasciando il suo numero di cellulare. Le notizie nel web sono ancora più confuse e contrastanti del giorno prima, rimaniamo nella decisione presa la sera prima, si parte! Un vento furioso spazza Kutaisi sollevando nuvole di polvere, sacchetti di plastica si animano nell’aria come esseri indiavolati. Lungo la strada la situazione sembra essere più che normale, unica differenza rispetto al giorno prima quattro poliziotti al posto di due a sorvegliare i ponti. Ci fermiamo pure lungo la strada a dare un occhiata ad un laboratorio artigianale di terrecotte, altri passanti si fermano a guardare ma nessuno sembra essere particolarmente preoccupato. Siamo a 50 km da Gori, la strada è trafficata, dalla direzione opposta arrivano pure dei camion, segno che il traffico non è bloccato. Pochi km prima di Gori incrociamo la deviazione per Tskhinvali, la capitale dell’Ossezia dista da li poco più di 20 km, niente traffico in quella direzione ma neanche movimenti strani. Pochi minuti di strada e scolliniamo in vista di Gori, dall’alto noto subito che il ponte sul fiume Mtkvari è bloccato, all’inizio penso sia una cosa creata di proposito ma poi, a giudicare dalla segnaletica che indica la deviazione, capisco che il ponte è interrotto da tempo. Seguiamo la deviazione che ci porta diritti nel centro. All’ingresso, la città ha un aria sinistra, sembra stranamente disabitata. Pochi minuti e siamo in centro, lungo le strade gli ultimi abitanti scappano trascinandosi a presso pesanti borse di nylon strapiene di vestiti, deduco che il grosso della popolazione deve essere stato evacuato il giorno prima se non durante la notte. Gori, famosa ai georgiani per avere dato i natali ad un signore chiamato Josif Vissarionovic Dzugasvili, passato poi alla storia con il pseudonimo di Stalin, dista solo a 10 km dal confine della regione dell’Ossezia del Sud. Oltrepassiamo il ponte sul Liakhvi, l’altro fiume che attraversa la città e ci fermiamo subito dopo avere incrociato due grossi camion militari. I fili della linea elettrica del tram giacciono penzoloni sull’asfalto appena smossi dal vento, mi tolgo il casco avvicinandomi al gruppo per fare il punto della situazione ma un rumore attira la mia attenzione. Sono spari. Alzo lo sguardo e a nord oltre la prima serie di colline, a circa 2 km da noi, delle colonne di fumo si levano.. gli spari sono di artiglieria leggera. Guardo gli altri e li trovo pronti, all’unisono mi dicono “via di qua!”. Certo, ma da che parte? Per un attimo ho la sensazione di essermi infilato in un culo di sacco, sembra assurdo ma l’istinto mi dice che l’unica via di scampo passa proprio attraverso quelle colonne di fumo. Razionalmente mi verrebbe da tornare da dove siamo venuti, d’istinto sento che la salvezza sta nella direzione di Tbilisi. Saltiamo in sella al volo, passiamo un cavalca ferrovia dopo del quale l’indicazione Tbilisi indica a sinistra in direzione degli spari, mi fermo all’incrocio e chiedo a due soldati se tirando diritto esco lo stesso dalla città, mi rispondono di si. Bene. Si passa un semaforo e poi un altro, l’enorme Piazza Lenin è deserta quando la tagliamo di traverso ma quando imbocchiamo il viale alberato oltre stante dei camion stanno scaricando dei militari in completa tenuta da guerra. Particolare agghiacciante è che, i soldati, come saltano giù dal cassone del camion cominciano a camminare acquattati..! Non dobbiamo essere lontani dalla zona del conflitto. Guardo a sinistra e vedo il fumo che prima stava dietro le colline ora è a meno di 500 metri. Cerco di tirare diritto ma la strada di fronte a me è chiusa, un altro cartello indica Tbilisi a sinistra. Guardo negli specchi e vedo i miei amici a pochi metri da me che mi seguono diligenti e silenziosi, imbocco il viale che pullula di soldati e mezzi ma, stranamente, nessuno ci ferma. Decido di fermarmi io prima che sia troppo tardi, un gruppo di militari georgiani sta al lato della strada, alcuni parlano alla radio. Cerco con gli occhi il più alto in grado e appena lo scorgo gli chiedo “..per Tbilisi?”, senza esitazioni stende un braccio in direzione del fumo e mi risponde in russo “tu da!”, diritto in quella direzione! Mi mancano le forze e non riesco a capacitarmi come i militari non impediscano a 5 civili in moto di lanciarsi nel mezzo di un conflitto a fuoco. Ripeto la domanda al sottufficiale “..per Tbilisi?” lui mi ignora ma un giovane soldato poco lontano mi urla in faccia “togliti di mezzo ti abbiamo detto di andare di la!!!” e mentre grida con la mano destra arma il cane del mitragliatore. Stento a credere alle parole che mi vengono dette, ci stanno mandando in mezzo al fuoco.. Mi viene allora da pensare che forse il pericolo maggiore lo abbiamo ora alle spalle e che l’unica via di scampo sia veramente quella. Metto la prima e parto, gli altri mi seguono, nell’aria l’odore acre del fumo e della polvere da sparo. Procedo ai 20/30 all’ora, faccio ballare gli occhi a destra e sinistra in cerca di possibili pericoli, cosciente comunque che il pericolo più grosso sta in fronte a noi. Il viale che stiamo percorrendo ad un tratto si stringe e l’aiuola spartitraffico che stava nel mezzo scompare, due palazzi fungono da strettoia, la strada in quel punto non e’ larga più di 5 metri. La oltrepassiamo a bassa velocità ma appena superati i due palazzi ci rendiamo conto di essere stati catapultati direttamente all’inferno. La strada dopo quel punto si allarga ancora, ecco perché non abbiamo visto i palazzi in fiamme che stanno sulla destra a pochi metri dalla strada, gli spari si sentono ora nitidi, sono mitragliatori che sparano raffiche da 3/5 colpi. I soldati ai quali ci eravamo fermati chiedere le indicazioni si sono mossi ed avanzano alle nostre spalle, mi rendo conto troppo tardi che siamo oltre il punto di non ritorno ma l’istinto è quello di frenare comunque. Daniele si affianca alla mia sinistra, lo guardo come a chiedere l’ultima approvazione di quel che sto facendo, li sto guidando in mezzo ad una battaglia. “Qui sparano sul serio..!” gli dico, di rimando lui da dentro il casco mi dice “Vai.. vai!”. Le sue parole mi echeggiano nella testa mentre scalo una marcia per prendere velocità, mi sembra di rimanere fermo e ne scalo un altra, il motore della moto portato a regimi folli urla da sotto il serbatoio. Sono in testa alla carovana che apro la strada, mi alzo la mentoniera del casco per vedere meglio quello che faccio, sono in centro strada in balia dei cecchini. Sulla destra una troupe televisiva cammina gattoni cercando riparo dietro un cartellone pubblicitario, dal buio delle finestre dei palazzi in fiamme di destra si vedono le fiammate degli spari dirette verso di noi, solo in quel momento mi viene da guardare a sinistra, stanno sparando anche da la..! Siamo praticamente in mezzo ad un fuoco incrociato! L’adrenalina mi blocca la schiena, mi sembra di avere un coltello conficcato nelle reni, saranno passati due secondi da quando ho dato gas ma mi sembra un eternità. Il contachilometri segna quasi i cento ma mi sembra di essere a passo d’uomo, le immagini scorrono al rallentatore, metto la quarta deciso che ormai non mollo neanche se davanti mi si presenta un Panzer tedesco con il cannone puntato ad altezza uomo. Le pallottole ci fischiano sopra la testa, passo a velocità folle sopra i vetri di una cabina telefonica esplosa solo qualche secondo prima ma so che pochi metri ancora e dovrò mollare il gas, la nera nube di fumo davanti a noi è troppo densa per poterci entrare a quella velocità. Controllo gli specchi a cercare gli altri, mi sono dietro, chini sopra le loro moto che silenziosi mi seguono. Non li vedo ma mi immagino i loro volti tesi dentro i caschi. Sono gli ultimi metri dopodiché dovrò rallentare se non fermarmi, non posso buttarmi alla cieca in mezzo a quel fumo. Vorrei piangere ma non ce la faccio, vorrei almeno ad essere solo a rischiare la vita, invece altre quattro persone sono con me e mi stanno seguendo in questo delirio, la cosa ha del grottesco. Mentre guido impugnando saldamente il manubrio non percepisco più il mio corpo, non sento più alcun dolore ma sono sicuro che quando la tensione calerà, quando mi fermerò, sarò sicuramente sanguinante da qualche parte. Impossibile uscire illesi da qui. Stranamente all’improvviso vengo pervaso da una strana calma, non è rassegnazione è calma, quiete. Come andrà lo vedremo, stranamente non ho paura di quel che ora mi aspetta, sono pronto a buttarmi. E’ vero, qualcuno ha detto: “quando camminiamo fino al limite di tutta la luce che abbiamo, e facciamo un passo nell’oscurità del non conosciuto, dobbiamo credere che accada una di queste due cose; ci sarà qualcosa di solido su cui mettere piede, o ci verrà insegnato a volare”. Come per incanto, a pochi metri dal fumo la strada che stavamo percorrendo curva secca a destra, la imbocco piegandomi rasentando quasi l’asfalto, davanti a noi si apre una larga carreggiata, una via verso la salvezza. Do fondo alla manopola del gas, la mia povera vecchia moto si prodiga in ulteriore slancio e plana come se volesse volare. Corro all’impazzata tirando al limite tutte le marce, ai 150 all’ora guardo gli specchi, gli altri ci sono ancora tutti a pochi metri da me. Lasciamo il conflitto alle nostre spalle, la colonna di fumo che sembrava inesorabilmente doverci inghiottire appare sempre più piccola, davanti a noi la strada come l’avevamo lasciata prima di entrare a Gori; un branco di pecore pascola, due passanti sono sul ciglio della strada che con le mani in tasca parlano con dei militari sdraiati sull’erba. E’ tutto finito. Dei milioni di chilometri fatti in tutta la mia vita, questo è stato sicuramente il chilometro più lungo. Mi fermo solo dopo mezz’ora, sicuro di essere completamente fuori pericolo, ci togliamo il casco senza dirci una parola, Manuela non ha ancora smesso di piangere. Decidiamo di saltare la tappa di Tbilisi, la capitale georgiana è relativamente vicina alla zona del conflitto, i russi non esiterebbero ad attaccarla al fine di piegare il paese in pochi giorni, almeno questo è il nostro pensiero. A Tbilisi dovremmo esserci dovuti fermare due notti ma è troppo rischioso, si passa subito in Armenia, se siamo fortunati ci saremo prima che faccia buio. Alle cinque di pomeriggio siamo al confine ed in meno di tre ore lo attraversiamo, arriviamo in un hotel di fortuna perduto nelle montagne armene che è già notte. Dopo cena guardiamo sul pc le immagini della telecamera fissa installata sulla moto di Ermanno che stranamente era rimasta accesa lungo quella interminabile corsa. Mentre il video scorre nessuno osa parlare, la prima voce si leva quando dall’inquadratura scompare all’improvviso la nube di fumo.. è tutto finito. All’indomani ci giunge notizia che le frontiere georgiane sono state chiuse, abbiamo fatto in tempo a passare per un pelo, ora però rimane il problema di come uscire dall’Armenia. Incastrata in un mosaico di confini l’Armenia non ha rapporti di buon vicinato, le frontiere con l’Azerbaijan sono chiuse dagli anni 90, quelle turche dall’inizio del 900. Per uscire da qui l’unica via rimane l’Iran, attraversandolo fino a raggiungere la frontiera del Kurdistan per poi entrare in Turchia di nuovo. Chiederemo il visto all’ambasciata iraniana di Yerevan, non dovrebbero avere problemi a rilasciarcelo, ma non abbiamo i documenti per le moto, a quelli ci dovrò pensare io a come recuperarli, o meglio, a come fare per passare senza. Spero che vent’anni di esperienza di viaggi mi siano d’aiuto. Sulla strada per Yerevan ci fermiamo al Monastero di Haghpat, quando entriamo nel gavit la messa è in corso, un prete dal lungo mantello dorato salmodia profonde parole arcane che echeggiano nelle volte dell’antica chiesa. Mi dileguo tra la poca folla e trovo posto sul pavimento seduto in un angolo lontano da occhi indiscreti. Osservo quelle umili anime radunate alla funzione domenicale, ognuna di loro spinta qui da un proprio motivo, da un proprio bisogno, chi per ringraziare, chi per invocare.. Nell’angolo opposto Daniele Manuela Ermanno e Ralitza accendono delle sottili candele conficcandole poi nella sabbia del candeliere. Hanno volti solenni e qualcuno di loro ha ancora le guancie rigate di lacrime.
Io, gambe incrociate, la testa appoggiata al muro e le mani aperte sul pavimento, penso a quale stratagemma inventarmi quando saremo al confine iraniano.

Simone Chieregato
Yerevan, Armenia, 12 agosto 2008

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